Catherine Genovese morì il 13 marzo 1964. Era una ragazza normale, come tante altre. Forse, Catherine non sarebbe diventata famosa senza quel maledetto 13 marzo. Invece oggi lo è, suo malgrado. Molti conoscono la storia della sua morte. E molto è stato scritto e detto su di lei. La sua storia è diventata il caso di studio perfetto su apatia e codardia, dopotutto. Ma solo in pochi si sono occupati della sua vita. La chiamiamo spesso Kitty, per esempio. Eppure, non la conoscevamo. Perché ci prendiamo questa confidenza? Questo articolo mira a mettere in luce Catherine e l’eredità scientifica che ci ha lasciato.
La Vita di Catherine Genovese
Catherine Genovese è una bella ragazza italo-americana. Ha 28 anni, un viso magro e serio. Fa parte di una famiglia della middle class di Brooklyn. Catherine è la sorella maggiore di cinque fratelli. Vive una vita semplice, come tante altre ragazze della sua età. Fa la barista al Ev’s 11th Hour Sports Bar, sulla Jamaica Avenue, nel Queens. Alla sua famiglia ciò non piace. In effetti, sua madre ha assistito a un omicidio. Fu allora che la sua famiglia decise di lasciare New York e trasferirsi nel Connecticut. Era il 1954. Così, quando Catherine decide di tornare a New York, nessuno è d’accordo. Per lavorare a New York City? In un bar? Di notte?
Ma la scelta spetta a Catherine. Così, la ragazza si trasferisce in un piccolo appartamento in Austin Street, nel Queens. Nel suo quartiere borghese vivono molte persone oneste, per lo più commercianti. Però, i suoi genitori non sono d’accordo neanche su questo. Pensano che sarebbe meglio se Catherine vivesse con loro, in periferia, nella casa di famiglia.
Orrore a Austin Street: l’omicidio di Catherine Genovese
Il 13 marzo 1964, Catherine Genovese terminò il suo turno di lavoro intorno alle 3 antimeridiane. È una mattina fredda e nevosa a New York. La ragazza torna a casa con la sua macchina rossa. Ma dopo aver parcheggiato, mentre chiude l’auto, nota qualcosa. C’è un uomo, non lontano, che la guarda. Catherine sente che qualcosa non va. Inizia a correre per raggiungere il suo appartamento. Anche l’uomo inizia a correre, inseguendola. Da dietro, Catherine sente un dolore intenso. L’uomo l’ha colpita con un coltello alle spalle, due volte. Poi, Catherine si gira e riceve altre coltellate al petto e allo stomaco. La ragazza urla, chiede aiuto (“Mi ha accoltellato! Aiuto! Aiuto”), ma non arriva nessuno. Da una finestra qualcuno urla al delinquente di lasciar andare la ragazza. Nel silenzio di una fredda notte nevosa si può distinguere il rumore delle porte che si aprono e si chiudono. Le luci delle finestre si accendono e le tende si muovono. Così, le persone dietro le finestre possono vedere meglio la strada dall’interno degli appartamenti, al sicuro e al caldo. Ma non viene nessuno. Alle tre di una fredda mattina di New York, nessuno si è preso la briga di uscire e vedere cosa sta succedendo. Potrebbe essere un litigio tra amanti, dopotutto. Inoltre, New York non ha ancora un moderno sistema di gestione delle chiamate di emergenza. Alcune città ne hanno uno che garantisce l’anonimato. Ma New York City no. La gente ha paura delle strade e della violenza urbana. E preferisce starne fuori. Meglio non farsi coinvolgere in storie del genere.
Così, l’aggressore può continuare indisturbato. Solleva la gonna di Catherine e le taglia la biancheria intima e il reggiseno. Però, l’uomo non ha finito di pugnalarla. Catherine piange e chiede al suo aggressore di risparmiarle la vita. L’uomo si ferma, quasi all’improvviso. Potrebbe esserci un barlume di umanità in lui? Si allontana. Forse ha cambiato idea. Ma, dopo pochi minuti, torna. Catherine è lì. Sta morendo. Eppure, l’aggressore non ha pietà. Tenta di violentarla ma fallisce. Ha problemi di erezione ma raggiunge comunque l’orgasmo. A questo punto, fruga nel portafoglio della ragazza, prende i soldi che trova. E se ne va.
Poi qualcuno chiama la polizia. Sono le 03:55 del mattino. Gli agenti di polizia arrivano sulla scena in circa 2 minuti. I soccorritori portano Catherine in ospedale, ma è troppo tardi. Ha gridato aiuto, ha pianto chiedendo all’uomo di risparmiarle la vita. Ma nessuno l’ha aiutata.
Più tardi, la polizia rivelerà che Catherine avrebbe potuto essere salvata. Sarebbe bastato che qualcuno avesse denunciato prima l’attentato. La sequenza dei fatti è durata circa mezz’ora, compreso l’andirivieni dell’aggressore, le diciassette coltellate, le due aggressioni, lo stupro. Sembra che ci siano 38 testimoni. Ma, in quella mezz’ora, nessuno si mosse per aiutare una ragazza urlante in una fredda mattina di New York. Ci sarà però un dibattito su questi dati.
Il giorno dopo, i giornali trattarono l’omicidio come un evento minore. Poche righe sul Times. Una storia come tante altre.
L’omicida: Winston Moseley
Sei giorni dopo, la polizia arrestò Winston Moseley. Era un uomo di colore, sulla trentina. Guardandolo diremmo che era un uomo normale, calmo, come tanti altri. Aveva moglie e figli. Grazie al suo lavoro (era un riparatore), sosteneva la famiglia.
Ma ci sbaglieremmo. E tanto. Nemmeno la polizia aveva capito. In effetti, gli agenti portarono Winston in centrale per interrogarlo su alcuni furti. È uno dei sospettati. Qui accade qualcosa di inaspettato. Dopo alcune domande, Winston confessa. Ha compiuto rapine, aggressioni e omicidi, compreso quello di Catherine.
Durante il processo, Winston dirà molte cose. Gli piaceva uscire la mattina presto per derubare uomini o uccidere donne. Inoltre, Winston non discriminava in base al colore della pelle. Non gli importava se le sue vittime fossero bianche o nere. A volte, Moseley non le guardava nemmeno in faccia. Tranne una volta, quando scelse, per curiosità, in base al colore della pelle. Per le rapine, le sue vittime preferite erano uomini distratti e non troppo robusti. Puntare loro la pistola o il coltello e derubarli era un piacere. Ma cacciare le donne era anche meglio.
Winston descriverà alle forze dell’ordine cinque crimini e due omicidi, oltre a Catherine. Il primo omicidio confessato riguardava Barbara Kralik. Però, la confessione era falsa. Winston l’ha fece perché sospettava di essere indagato per l’omicidio di Catherine. Inoltre, questa confessione serviva a scagionare un suo amico, accusato dell’omicidio di Barbara. O così pensava Moseley.
Il secondo omicidio confessato riguardava Anna May Johnson. Qui, Winston non stava cercando di coprire nessuno. L’omicidio avvenne il 28 febbraio 1964. Il modus operandi era lo stesso dell’omicidio di Catherine. Winston seguì Anna May a South Ozone Park, sempre nel Queens. Poi la fermò e le chiese dei soldi. E la ragazza glieli diede. A quel punto, la colpì due volte, allo stomaco. Poi, spogliò Anna May per violentarla. Lì, all’aperto, sulla neve. Solo allora si rese conto che faceva troppo freddo. Poi, Winston portò la sua vittima nell’appartamento (di lei). La sua impotenza, però, non gli permetteva di fare ciò che voleva. Così, Moseley si sdraiò sopra di lei ed ebbe un orgasmo. La portò poi al piano superiore dell’appartamento. Qui, Winston diede fuoco al corpo di Anna May. Circa due settimane dopo, Catherine sarà la sua prossima vittima.
La difesa punterà sulla malattia mentale. Dopo una prima condanna a morte, il verdetto fu commutato in ergastolo. E dopo quattro anni di carcere, Winston riuscirà anche a fuggire. Da fuggitivo, violenterà un’altra donna, le ruberà l’auto, prenderà in ostaggio due uomini e una donna. Alla fine, si arrenderà all’FBI.
Tornato in prigione, prenderà una laurea. Varie testate, anche prestigiose, pubblicheranno le sue lettere. Inoltre, cercherà di rivedere il suo processo e di uscire. Ma ogni tentativo sarà inutile: Winston Moseley morirà in prigione, il 28 marzo 2016, all’età di 81 anni.
Dietro le Quinte dell’Omicidio di Catherine Genovese
Però, questa non è la storia di un assassino. È la storia di Catherine. Lei era una ragazza normale, con una vita rispettabile. Senza quel maledetto 13 marzo, non sarebbe nemmeno diventata famosa. Come fece dopo, suo malgrado.
Solo nel tempo, la storia del suo omicidio ha attirato l’attenzione. Poi, molti hanno studiato la sua morte. E la sua storia è diventata rapidamente un modello per descrivere l’apatia e la codardia. I professori hanno usato Catherine come punto di partenza per le loro lezioni, ad esempio. Inoltre, i preti l’hanno usata per i sermoni. E la TV ha prodotto documentari. Chi ha scritto di lei lo ha fatto per raccontare la sua morte, non la storia della sua vita.
Per questi motivi, questo articolo vuole, prima di tutto, mettere in luce la vita di Catherine. È stata vittima di un omicidio, certo. Ma era anche una donna coraggiosa e indipendente. Catherine viveva da sola e si guadagnava da vivere, nonostante la sua famiglia la pensasse diversamente. Quindi, la storia del suo omicidio è anche il ricordo di una ragazza determinata che ha combattuto per sopravvivere.
L’Eredità di una Vittima
Purtroppo, il caso di Catherine non è unico. Lei fu il paziente zero, in qualche modo. In effetti, da quel momento in poi, gli studiosi si resero conto che c’erano molti casi simili. Le persone spesso non ricevono aiuto, dopotutto.
Ad esempio, Eleanor Bradley si ruppe una gamba mentre faceva shopping. Nel dolore, chiese aiuto. Ma i passanti l’ignorarono per oltre 40 minuti. Alla fine, un tassista la portò dal medico.
Un uomo è morto a Moncalieri, davanti all’ospedale. Non riusciva a entrare nell’edificio da solo. Ma i medici non hanno fatto nulla. In strada, infatti, può intervenire solo il personale del pronto soccorso. Quindi, nessuno ha aiutato l’uomo. E lui non è sopravvissuto.
In tutti questi casi, quasi il 100% degli astanti non aiuta i bisognosi. Come mai?
La storia di Catherine ha catturato l’attenzione degli studiosi su questo tipo di evento. Da quel momento è iniziata una serie di ricerche che hanno fatto luce sull’altruismo nelle situazioni sociali. Ecco perché possiamo dire che Catherine ci lascia un’eredità scientificamente significativa.
I Segreti dell’Altruismo: L’Effetto Spettatore
Tra gli studiosi che si interessarono al caso c’erano diversi psicologi sociali. Latané e Darley erano tra loro. Quindi, essi eseguirono una serie di test. E videro il caso di Catherine ripetersi, in qualche modo.
Ad esempio, nel 1968, i due psicologi condussero un esperimento. Volevano sapere come reagiamo ai pericoli. Così, i ricercatori chiamarono in una stanza alcuni studenti universitari. La scusa era compilare un questionario. In alcuni casi gli studenti erano soli; in altri c’erano altre due persone. Ad un certo punto, il fumo cominciava a riempire la stanza. I ricercatori osservavano nel frattempo la scena attraverso una finestra unidirezionale. È una situazione ambigua: dobbiamo preoccuparci? Il fumo indica un incendio? In breve, può essere un’emergenza.
Quando erano soli, il 75% degli studenti lasciava la stanza e informava il personale dell’università del fumo. Ma solo il 38% di quelli in gruppo faceva lo stesso. Il tasso scende al 10% per la condizione sperimentale con attori che ignoravano il fumo. Le interviste post-esperimento hanno rivelato dettagli ancora più affascinanti. Chi non ha avvertito il personale ha cercato spiegazioni alternative. Alcuni pensavano che fossero i vapori provenienti dall’impianto di aria condizionata, ad esempio. Altri studenti pensavano che fosse smog proveniente dall’esterno. C’era anche chi pensava che fosse un “gas della verità”. Queste persone hanno concluso che era un esperimento. Così, hanno continuato a compilare il questionario. È divertente: avevano ragione! Era un esperimento. Ma non hanno colto lo scopo della ricerca.
Latané e Darley conclusero che è difficile riconoscere le emergenze. La semplice presenza di altre persone può influenzare i nostri giudizi, dopotutto.
Questi studiosi fecero altri esperimenti simili. Ad esempio, siamo più lenti a chiedere aiuto se qualcuno ha un attacco epilettico e altre persone sono lì. Più persone ci sono nell’ascensore, meno avvertiamo chi fa cadere incautamente monete o matite durante la corsa. E così via.
Complessivamente, gli studiosi hanno testato osservatori occasionali – da soli o in compagnia – in circa 50 esperimenti. In circa il 90% dei casi, 6.000 persone hanno aiutato i bisognosi solo se erano soli. In poche parole, la vittima ha meno probabilità di ricevere aiuto se ci sono altre persone intorno. E sorprendentemente, questo è vero anche su Internet. Anche online, infatti, rispondiamo alle richieste quando pensiamo di essere gli unici destinatari del messaggio.
Alla fine, Latané e Darley trassero le loro conclusioni. Ci vogliono tre cose perché gli spettatori di una situazione drammatica aiutino una vittima.
In primo luogo, le persone devono interpretare l’evento come un’emergenza. Di solito, quando vediamo qualcosa di ambiguo, cerchiamo di capire. E, per valutare la situazione, cerchiamo indizi nel comportamento di altre persone. Se gli altri sembrano calmi, spesso diamo per scontato che non ci sia un’emergenza. È quello che accadde nel Queens in quella fredda mattina del 13 marzo 1964, dopotutto. Molti testimoni sono andati alla finestra, hanno visto altre luci accese. Nessuno sembrava turbato. Quindi, tutti pensarono che forse non c’era bisogno di preoccuparsi.
Inoltre, l’illusione della trasparenza amplifica questo meccanismo perverso. Tendiamo a pensare di essere più “trasparenti” di quanto siamo in realtà. Partiamo dal presupposto che le persone leggano facilmente quando siamo tristi, felici o arrabbiati, ad esempio. Ma, spesso, non è così.
Se combiniamo questi due fenomeni, il caso di Catherine diventa comprensibile.
Però, non è abbastanza. In effetti, gli esperimenti dicono che le persone hanno maggiori probabilità di aiutare se pensano di essere sole. Se non c’è nessun altro, allora ci diamo da fare. Oggi conosciamo questo fenomeno come effetto spettatore. In poche parole, siamo meno propensi ad aiutare e dare sollievo quando sono presenti altri spettatori occasionali. Questo è vero anche se qualcuno si trova in una situazione disperata e ha bisogno di aiuto immediato. Anche qui, purtroppo, il caso di Catherine sembra da manuale. C’erano 38 testimoni. Tutti probabilmente pensavano che qualcun altro sarebbe intervenuto se davvero fosse stato necessario.
Quindi, abbiamo bisogno di un secondo passo affinché gli spettatori aiutino la vittima: assumersi la responsabilità. Infatti, spesso rispettiamo la norma di responsabilità sociale. È una specie di dovere morale. In breve, questa norma ordina di assistere le persone che dipendono dal nostro aiuto. La regola si applica anche se la vittima non fa parte della nostra famiglia o cerchia di amici.
Ma manca ancora qualcosa per aiutare. Le persone devono anche conoscere la forma appropriata d’aiuto. Le emergenze sono difficili da gestire, dopotutto. Se ci troviamo in queste situazioni, potremmo decidere che è meglio lasciar perdere. Possiamo sentirci impreparati ad intervenire, ad esempio. E se sbaglio? E se ingrandisco il problema? È meglio lasciare che gli altri se ne occupino. Ci sarà qualcuno migliore di me, certo. Sono tutte cose che spesso pensiamo, più o meno implicitamente.
Ad essere onesti, c’è anche un quarto e ultimo passo da compiere per aiutare le vittime: agire. Qualcuno potrebbe aver pensato d’aiutare Catherine, ma ha esitato. E questo è stato fatale per la donna.
Sfidando Apatia e Codardia
Quando il caso di Caterina Genovese divenne famoso, molti pensarono che non ci fosse molto di cui preoccuparsi. Sembrava un evento isolato. La spiegazione avrebbe potuto essere nell’umore degli osservatori, ad esempio. Noi – che siamo altruisti – non avremmo esitato. Anzi, avremmo agito diversamente. Sarebbe bastata una telefonata per salvare la donna, in fondo. E noi l’avremmo fatta. Chissà, forse saremmo usciti e avremmo lasciato scappare l’aggressore. Forse.
Nella vita di tutti i giorni, purtroppo, le cose non vanno così. Quante volte camminiamo di fretta senza prestare attenzione a ciò che sta accadendo intorno a noi? Quante volte ci immergiamo nello smartphone, ignorando le persone?
Per questi motivi l’omicidio di Catherine Genovese ha affascinato molte persone. Io sono tra loro. Una giovane donna urla e chiede aiuto in una fredda notte di New York. Ma nessuno l’aiuta. Perché? Le spiegazioni fornite non giustificano l’indifferenza di 38 testimoni. La paura di essere coinvolti e l’idea che si trattasse di una lite domestica non bastano. Potremmo pensare che qualcuno abbia avuto paura d’intervenire. Forse qualcun altro ha pensato che fosse meglio farsi gli affari propri. Ma gli altri? Alcuni hanno affermato di non riuscire a vedere cosa stesse succedendo. E quando gli è stato chiesto perché non hanno chiamato la polizia, molti hanno risposto: “Non lo so”. Oggi, attraverso la ricerca scientifica, possiamo rispondere a questa domanda.
Per Saperne di Più
Darley, J. M., & Latané, B. (1968). Bystander intervention in emergencies: diffusion of responsibility. Journal of Personality and Social Psychology, 8(4p1), 377-383. https://doi.org/10.1037/h0025589
Latane, B., & Darley, J. M. (1968). Group inhibition of bystander intervention in emergencies. Journal of Personality and Social Psychology, 10(3), 215-221. https://doi.org/10.1037/h0026570
Manning, R., Levine, M., & Collins, A. (2007). The Kitty Genovese murder and the social psychology of helping: The parable of the 38 witnesses. American Psychologist, 62(6), 555-562. https://www.grignoux.be/dossiers/288/pdf/manning_et_alii.pdf
Myers, D., G. & Twenge, J, (2013). Social Psychology, 11th edition. New York, US: The McGraw-Hill Companies, Inc. (trad. it. Psicologia Sociale, 2013, Milano, Italia: McGraw-Hill Education Italy s.r.l.).
Rosenthal, A. M. (1964/1999). Thirty-eight witnesses: The Kitty Genovese case. Open Road Media.